sabato 10 giugno 2023

Festa del Corpus Domini

 


Spostata in molti Paesi, dal tradizionale giovedì alla domenica, la celebrazione del Corpus Domini richiama la presenza reale di Cristo nell’ Eucaristia.

Le origini nel Medio Evo, in Belgio

La storia delle origini ci portano nel XIII secolo, in Belgio,  il vescovo assecondò la richiesta di una religiosa che voleva celebrare il Sacramento del corpo e sangue di Cristo al di fuori della Settimana Santa.

Papa Urbano IV e il miracolo eucaristico di Bolsena

L’estensione della solennità a tutta la Chiesa però va fatta risalire a papa Urbano IV, nel 1264. È dell’anno precedente invece il miracolo eucaristico di Bolsena. Qui un sacerdote boemo, in pellegrinaggio verso Roma, mentre celebrava Messa, allo spezzare l’Ostia consacrata, fu attraversato dal dubbio della presenza reale di Cristo. In risposta alle sue perplessità, dall’Ostia uscirono allora alcune gocce di sangue che macchiarono il bianco corporale di lino (conservato nel Duomo di Orvieto) e alcune pietre dell’altare ancora oggi custodite nella basilica di Santa Cristina. Nell’estendere la solennità a tutta la Chiesa cattolica, Urbano IV scelse come collocazione il giovedì successivo alla prima domenica dopo Pentecoste (60 giorni dopo Pasqua).

Papa Urbano IV incaricò i Tommaso d’Aquino di comporre l’officio della solennità e della Messa del Corpus et Sanguis Domini. In quel tempo, era il 1264, san Tommaso risiedeva, come il Pontefice, sull’etrusca città rupestre di Orvieto nel convento di San Domenico (che, tra l’altro, fu il primo ad essere dedicato al santo iberico). Il Doctor Angelicus insegnava teologia nello studium (l’università dell’epoca) orvietano e ancora oggi presso San Domenico si conserva ancora la cattedra dell’Aquinate e il Crocifisso ligneo che gli parlò. Tradizione vuole infatti che proprio per la profondità e completezza teologica dell’officio composto per il Corpus Domini, Gesù - attraverso quel Crocifisso - abbia detto al suo prediletto teologo: "Bene scripsisti de me, Thoma". L’inno principale del Corpus Domini, cantato nella processione e nei Vespri, è il "Pange lingua" scritto e pensato da Tommaso d’Aquino.


IL CORPO E IL SANGUE DI CRISTO

 La Chiesa latina celebra il grande mistero del Corpo e del Sangue del Signore due volte nell’anno liturgico: al giovedì santo e alla fine del tempo pasquale in questa festa del Corpus Domini.



Non è una ripetizione, quanto piuttosto un approfondimento di questo mistero di amore e di unità. Nel giovedì santo, contempliamo il mistero dell’eucaristia soprattutto nel suo essere riassuntivo e sintetico della Pasqua, quale segno profetico di ciò che si è realizzato nella passione, morte e risurrezione di Gesù. Nella solennità del Corpo e del Sangue del Signore è la festa, di uomini e donne che vengono compaginati insieme per azione dello Spirito e costituiti membra del corpo di Cristo, in unione a lui nostro capo. Questa festa ci ricorda che il pane e il vino, attraverso la preghiera della Chiesa, la ripresa delle parole istituzionali del Signore e la potenza dello Spirito Santo, vengono trasformati nel corpo e sangue di Cristo. 

Ci rammenta che il fine dell’Eucaristia, che non è semplicemente la presenza reale, bensì la nostra trasformazione nel corpo escatologico ed ecclesiale del Signore, attraverso la comunione al corpo sacramentale.

La presenza sacramentale – come la riserva eucaristica nel tabernacolo – non è orientata ai nostri occhi perché ci poniamo semplicemente in adorazione davanti a essa, bensì è orientata alle nostre bocche, perché ce ne nutriamo e ci lasciamo trasformare nel corpo ecclesiale del Signore.

Adorare, significa etimologicamente portare alla bocca.

Portare l’Eucaristia nel cuore delle nostre città, dove gli uomini e le donne lavorano e vivono, gioiscono e patiscono, significa non tanto mostrare il mistero del corpo del Signore, quanto affermare e testimoniare che il Signore si è fatto cibo, perché tutti se ne nutrano e se ne lascino trasformare ogni giorno.

Il Signore ha voluto essere presente in mezzo a noi nei segni sacramentali per entrare nella nostra quotidianità e per invitarci a nutrirci di lui: della sua parola e della sua carne, per diventare noi stessi parola e carne.

Questa festa ci ricorda allora che siamo lievito nella pasta.

Noi che partecipiamo all’Eucaristia, che lasciamo che alimenti la nostra vita, siamo segno di quell’unità cui è chiamata tutta l’umanità.

Il pane e il vino rivestono così una importante e molteplice valenza simbolica.

Essi rappresentano la natura (sono frutti della terra) e la cultura (sono frutti del lavoro umano); sono cibo e bevanda, dunque gli elementi vitali per eccellenza che accompagnano l’uomo dal suo nascere al suo morire durante tutta la sua vita.

Il pane e il vino rinviano alla convivialità e alla comunione.

Il cibo eucaristico, significato da questi simboli della vita così elementari e pregnanti, anticipa e prefigura quella vita eterna e quella comunione senza più ombre con Dio e tra di noi che, donata in Cristo, sarà realtà per sempre e per tutti nel Regno di Dio.

La pagina della Genesi consente di cogliere la dimensione universale dell’Eucaristia.

Melchisedek che incontra Abramo può essere colto come rappresentante dell’offerta che dall’intera umanità sale a Dio, dall’umanità che non ha conosciuto la rivelazione.

E questo ricorda a noi cristiani: che l’Eucaristia è azione di grazie che la chiesa compie a nome di tutta la creazione, per tutto il mondo e su tutto il mondo.

L’Eucaristia è preghiera delle preghiere: in essa sfociano tutte le nostre preghiere, ma essa è anche espressione di tutto l’anelito umano alla comunione con Dio.

Vi è poi una dimensione cosmica, creazionale e universale nell’Eucaristia che non può essere dimenticata.

Il mondo e l’intera umanità che Cristo ha riconciliato con Dio sono presenti nell’Eucaristia: nel pane e nel vino, nella persona e nel corpo dei fedeli e nelle preghiere che essi offrono per tutti gli uomini.

Non è azione di giusti ma di peccatori. Non è il cibo dei perfetti, ma il farmaco che ci guarisce dai nostri mali, come ricorda sant’Ambrogio.

Nella pagina evangelica il comando che Gesù rivolge ai discepoli davanti alle folle affamate e stanche al declinare del giorno, interpella in profondità l’agire ecclesiale.

Quel “date loro voi stessi da mangiare” non può essere ridotto ad appello alla generosità o una semplice esortazione alla giustizia sociale e nemmeno inteso come invito a un’efficiente e adeguata organizzazione assistenziale della carità.

Quel comando contesta l’indifferenza e il disimpegno verso l’altro nel bisogno (“Congeda la folla perché vada nei villaggi per alloggiare e trovar cibo”) e suscita l’obiezione dei discepoli che vedono la loro povertà come impedimento ad assolverlo (“Non abbiamo che cinque pani e due pesci”).

Il comando evangelico urta, ieri come oggi, contro i parametri di buon senso, razionalità ed efficienza che pervadono anche la Chiesa.

Paradossalmente, proprio la povertà che i discepoli vedono come ostacolo, è per Gesù lo spazio necessario del dono.

È l’elemento indispensabile affinché quel “dar da mangiare” non sia solo dispiegamento di efficienza umana, ma segno della potenza, della benedizione e della misericordia di Dio e luogo di instaurazione di fraternità e di comunione.

Portare l’Eucaristia nel cuore del mondo è rispondere all’invito che abbiamo ascoltato da Gesù: diamo noi stessi da mangiare a questa umanità ferita, stanca, rassegnata, disunita, che non ha la forza di alzare il capo.

F.A.

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